Archeologia subacquea – Intervista a Carlo Beltrame

Archeologia subacquea

Intervista a Carlo Beltrame

di Umberto Natoli


E' per me un grande piacere parlare di Carlo Beltrame, uno dei più valenti e attivi archeologi subacquei italiani. Una bella amicizia ritrovata a distanza di anni, dopo che ci eravamo persi di vista, assorbiti ognuno dagli impegni della propria vita, come spesso accade.

E’ stato alcuni mesi fa, costretto in casa dai limiti imposti dalla pandemia, che rimettendo apposto un vecchio scatolone di appunti e fotografie delle mie attività e dei miei reportage di viaggio, ho trovato un raccoglitore con alcune diapositive ormai dimenticate che ritraevano un subacqueo vicino un enorme cannone spagnolo in acque caraibiche e spillato da una parte un biglietto da visita un po' sgualcito con scritto Carlo Beltrame archeologo subacqueo. Ecco chi era il soggetto di quei miei scatti realizzati a pellicola con la Nikonos III, e il mio pensiero, con una certa emozione, è volato subito verso anni lontani, e verso il ricordo dello splendido paesaggio marino di Cuba, della sua luce accecante e delle sue acque azzurre e trasparenti, ma anche di un giovane professore di archeologia di Venezia, poco più che un ragazzo.

 
 
Carlo Beltrame nel 2005 a Cuba vicino ad un cannone spagnolo del XVI secolo.

Era il 2005 ed io all’epoca mi ero fatto promotore di ricerche congiunte Italia Cuba sui resti dei galeoni, in larghissima parte inesplorati, affondati dal XVI al XVIII secolo lungo l’immensa barriera corallina dell’isola, ed ero andato a documentarmi anche presso l’Archivio Generale delle Indie di Siviglia. In uno di quegli incontri su iniziativa di alcuni organi di governo cubani, ed in particolare del Gabinete de Arqueologia della città dell’Havana fu invitato per una settimana di studi ed esplorazioni proprio Carlo Beltrame, che nonostante la giovane età, allora 36 anni, era già docente di archeologia navale presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia e presso l’Università degli Studi della Tuscia di Viterbo, oltre ad avere già al suo attivo varie campagne di scavo subacqueo.

 
 
Carlo Beltrame, il primo da destra e al centro Umberto Natoli, autore dell’articolo, a Cuba nel 2005 assieme a archeologi e militari cubani.

Lo conobbi in quell’occasione e come primo impatto percepii che quel giovane studioso dall’atteggiamento molto riservato si era trovato nella difficoltà iniziale di dover capire un ambiente e una realtà di cui si conosceva pochissimo. Infatti sulle attività universitarie, di ricerca e museali a Cuba, relative all’archeologia subacquea, non c’erano notizie né tantomeno si conoscevano scritti, letteratura di studio o comunque pubblicazioni a livello internazionale. Ben presto però il calore, la disponibilità e la gentilezza degli archeologi dell’Havana e del personale militare e posso dire anche da parte mia, sciolsero la sua riservatezza e così avemmo modo di conoscere una persona straordinariamente preparata che affascinò tutti con il suo apporto di conoscenza e interpretazione di vari reperti, e per il suo grande interesse per le rotte e la storia della navigazione nel Nuovo Mondo. Poi il sole di Cuba, i suoi colori, i profumi, i sapori, l’allegria coinvolgente dei suoi ritmi e i sorrisi della gente fecero il resto, e Carlo Beltrame, che tutti chiamavamo, me compreso, el profesor, venne da tutti considerato con grande stima e simpatia.

In uno di quei giorni vivemmo pure un’inquietante avventura caraibica degna di un film d’azione. Ci eravamo imbarcati con un cabinato verso una delle più vaste e disabitate aree marine dell’isola, disseminata di cayos e di estesi banchi di barriera corallina quasi affiorante: un luogo bellissimo, ma insidiosissimo per la navigazione, dove nei secoli affondarono molte navi dei conquistadores e dei pirati. A bordo c’ero io come accompagnatore e giornalista, poi Carlo Beltrame e altri due archeologi cubani, oltre a un istruttore italiano, due militari e il capitano. Dopo ore di navigazione giungemmo su un tratto di barriera poco profonda con sparsi grandi cannoni, una grossa ancora molto concrezionata e molti frammenti di ceramica dipinta. Erano i resti di un vascello del XVI secolo. Esplorammo il sito e scattai alcune foto, sempre accompagnati da un enorme barracuda dalla dentatura inquietante e molto incuriosito, ma forse anche piuttosto infastidito dalla nostra presenza. L’emozione forte però arrivò dopo. Al termine dell’immersione comparve all’orizzonte un’imbarcazione militare. Il nostro capitano mi spiegò che in quella zona di mare lontana dalle normali rotte commerciali e per nulla frequentata dal traffico nautico per via dei pericolosi bassifondi, oltretutto molto lontana da insediamenti costieri, i narcotrafficanti messicani, gente pericolosissima e senza scrupoli, buttavano in mare balle di cocaina fissate ad un galleggiante, che venivano poi raccolte da velocissimi scafi della malavita americana. Per questo la guardia costiera cubana pattugliava spesso la zona e quando intercettava la rara presenza di un’imbarcazione, lanciava una perentoria richiesta di identificazione via radio, alla quale, se non si rispondeva entro la terza chiamata, i militari avrebbero reagito aprendo il fuoco senza tanti complimenti. Ebbene mi trovavo nella cabina accanto al capitano e la radio riceveva i messaggi, ma non riusciva a trasmettere la sua risposta, e infatti la terza e ultima richiesta arrivò perentoria e concitata. Uno dei militari che ci accompagnava mi disse fermamente di non dire nulla agli altri italiani, per non allarmarli, ma Carlo Beltrame percepì comunque che c’era qualcosa di strano nel nostro comportamento, anche se non arrivò a capire al momento il reale pericolo che stavamo correndo. Il cuore mi batteva forte, ma per nostra fortuna dopo l’ennesimo tentativo del capitano, tesissimo, di rispondere alla richiesta, finalmente la radio riprese a funzionare e trasmise la sua voce. Poi quella sera, davanti a un bicchiere di Mojito profumato di rum e jerba buena, raccontai in via riservata a Carlo, che ne rimase stupito, i dettagli dello scampato pericolo, ma dimenticammo ben presto tutto con un sorriso, e un coinvolgente ritmo della musica cubana ci fece tornare l’allegria.

Per me che ho risentito el profesor dopo tanto tempo, è stato davvero un grande piacere ritrovare la sua amicizia e simpatia. E nonostante la lunga strada accademica e di ricercatore da lui percorsa in tutti questi anni, ho trovato immutati in lui la semplicità, lo spirito e l’entusiasmo di allora. E quando ho provato a chiedergli una sua graditissima collaborazione a La Marea, ha accolto con grande disponibilità il mio invito, e sono sicuro che con i suoi articoli ci regalerà molte affascinanti conoscenze di archeologia subacquea.

 
 
Carlo Beltrame con studenti e collaboratori in occasione di una missione nell’isola di Mljet in Croazia.

Oggi Carlo Beltrame, nella sua piena maturità professionale, ricopre la posizione di docente titolare degli insegnamenti di Metodologie della Ricerca Archeologica e di Archeologia Marittima e Subacquea, in qualità di professore associato presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, ed è uno studioso conosciuto in tutto il mondo, titolare di vari premi e riconoscimenti, con un curriculum accademico, di studio, di pubblicazioni e di lavoro sul campo ormai molto ricco e di tutto rispetto. E per farlo meglio conoscere ai nostri lettori, che avranno modo sicuramente di apprezzare nei prossimi numeri i suoi scritti, ho voluto rivolgergli qualche domanda.

Come è nata la tua passione per l’archeologia subacquea?

Erano due strade che nella mia vita cominciarono a correre parallele. Fin da ragazzo ero appassionato di archeologia e dopo il liceo mi iscrissi all’Università di Padova nella facoltà di Lettere Antiche a indirizzo archeologico. In quegli anni cresceva anche in me una forte passione per il mare. Sono veneziano e fin da bambino il mio rapporto con l’elemento acquatico è sempre stato molto forte e diretto. Vivevo e vivo tuttora proprio sulla laguna. Molte volte da ragazzo, osservando la superficie leggermente increspata mi fermavo a riflettere cosa ci fosse nascosto, quali meraviglie erano affondate nei secoli sul fondo di quelle acque affascinanti e misteriose, portandosi dietro le loro storie e la loro umanità. Mosso da questa curiosità, ma anche attratto dal mondo sottomarino, mi iscrissi a vent’anni al Club Sommozzatori Padova e frequentai il mio primo corso sub. Poi la passione per le immersioni, che nel frattempo cresceva, fu subito un tutt’uno con i miei studi universitari, ed entrambe gli impegni accesero in me il fuoco sacro dell’archeologia subacquea.

Erano anni molto stimolanti per questo settore. Passato il periodo che possiamo definire quasi pionieristico durato dai primi anni cinquanta fino alla fine degli anni ottanta, i metodi e gli strumenti si stavano evolvendo rapidamente ed era tutto un fervore di seminari, congressi, campagne di scavo, impegno e dedizione da parte di istituzioni universitarie. Su quest’onda indirizzai il completamento dei miei studi e nel contempo mi iniziai a formare come archeologo subacqueo nei corsi O.T.A.S. della F.I.P.S., seguendo le tecniche indicate anche nel manuale Introduzione all’Archeologia delle Acque di Antonio Rosso; era un’alternativa italiana ai prestigiosi corsi che teneva in Inghilterra la N.A.S. Nautical Archeology Society. Arrivai così alla fine del mio percorso universitario già con una buona preparazione tecnica come archeosub, poi subito dopo la laurea ebbi l’opportunità, e debbo dire anche la fortuna, di essere inserito in varie campagne di scavo. La materia mi appassionava e mi coinvolgeva sempre di più ed era ormai la ragione della mia vita, la strada che avrei seguito per il mio futuro. Partecipavo con entusiasmo a tutti i corsi a cui potevo iscrivermi, anche all’estero, in Francia e in Spagna, nazioni dove la materia era tenuta in grande considerazione, e il grande interesse con cui partecipavo alleggeriva molto l’impegno che quegli studi richiedevano sia a livello mentale che nelle lunghe ore trascorse con la muta sub addosso.

Tra tutte ricordo in particolare un’esperienza per me molto formativa con l’archeologo inglese Antony Parker della University of Bristol sul relitto della nave bizantina di Marzamemi in Sicilia, cui seguì un’altra bellissima campagna di scavo con la ricercatrice Alice Freschi sul relitto romano di Grado. Poi arrivarono quasi contemporaneamente nel 2001 e nel 2002 i primi due incarichi universitari alla Ca’ Foscari di Venezia e all’Università della Tuscia di Viterbo, e una borsa di studio in Danimarca per una ricerca in laboratorio, che considero per me fondamentale, e anche altri progetti di ricerca importanti come lo studio del relitto del brigantino Mercurio affondato nel 1812 nei pressi di Lignano Sabbiadoro, le impegnative, specialmente sul piano operativo, ispezioni archeologiche in occasione dei lavori del MOSE, e tanti altri in Italia e all’estero, ultimi dei quali in particolare in Croazia su una nave del XVI secolo e su un altro importante relitto del XI secolo. Un altro progetto che mi sta particolarmente a cuore, e che mi ha dato molta soddisfazione, riguarda i carichi di marmo romano, che mi ha impegnato in Sicilia, in Calabria, in Toscana e in Sardegna.

Come è cambiata in questi ultimi anni la ricerca archeologica subacquea?

Nel mio lavoro poco più che trentennale nell'archeologia subacquea posso dire che il concetto di approccio stratigrafico su un relitto o su un sito in genere, è rimasto sostanzialmente uguale nel tempo, procedendo con logica e progressione nella rimozione di strati uniformi di sedimento su tutta l'area interessata o su una porzione ben definita della stessa. In pratica le metodologie di intervento sono rimaste sempre le stesse. Ciò che è invece cambiato radicalmente e sta evolvendo con grande rapidità sono le tecniche di indagine scientifica, ossia di analisi fisico chimica dei materiali. E' tutto un gran lavoro di tecnici specializzati, come geologi, ingegneri, biologi, botanici, zoologi, antropologi fisici, che affianca quello di noi archeologi. Direi che è una rivoluzione in atto con risultati e prospettive molto entusiasmanti. Si pensi ad esempio al lavoro straordinario degli archeobotanici e dei biochimici che oggi riescono con analisi molto sofisticate a identificare la natura dei legni, dei cordami, dei resti di tessuti, di semi, di pollini, di tracce di sedimenti e di liquidi, addirittura nei casi più fortunati riuscendo nella ricostruzione del DNA. E tutta questa materia sta raggiungendo risultati di affidabilità molto elevati, quasi impensabili in alcuni casi fino a pochi anni fa. A questo si aggiungono i progressi e la riduzione dei costi nella fase di prospezione, delle tecniche elettroacustiche come il Side Scan Sonar che arriva a disegnare con estrema precisione la struttura di un fondale, oppure delle tecniche sismo stratigrafiche come il Sub Bottom Profile che riesce a penetrare il fondale marino per identificare la presenza di eventuali materiali.

Per quanto mi riguarda mi sono particolarmente impegnato e direi appassionato ad una specifica tecnica di documentazione, la fotogrammetria digitale, che in archeologia subacquea può essere definita una vera e propria rivoluzione copernicana. Per spiegarla in parole estremamente semplici si tratta di una copertura fotografica presa da diverse angolazioni e su diverse porzioni di un sito, che un software dedicato unisce assieme ed elabora fornendo come risultato finale un modello tridimensionale del soggetto ed una misurazione molto precisa dello stesso. Può essere applicata con efficacia anche in presenza di acque molto torbide, dove si ricorre ad una maggiore serie di fotografie riprese da distanza molto ravvicinata.

Un altro aspetto che le moderne tecnologie ci offrono in termini di prestazioni e di abbattimento di costi, riguarda la conquista delle profondità, dove ancora non è giunta la mano dei trafugatori di reperti. Infatti oltre le quote dell'immersione sportiva c'è tutto un mondo inesplorato, fino ad arrivare dove non filtra più la luce solare, con minore sviluppo di vita incrostante che consente anche una migliore conservazione dei reperti. I costi di minisommergibili, di ROV e di altri strumenti comandati a distanza si sono infatti ridotti consentendo un'accessibilità facilitata ad enti, istituti di ricerca e università.

Quello che invece noto con notevole dispiacere in questo importante settore della ricerca archeologica subacquea è la crisi di attività che stiamo vivendo negli ultimi tempi in Italia, in cui sono ferme molte iniziative, non solo di scavo, ma anche di impegno da parte di varie istituzioni. Tutto ciò è dovuto come riflesso dei più diffusi problemi di crisi economica ed ora dovuti alla pandemia, da cui spero proprio possiamo uscire al più presto, ma anche di una politica all’interno del Ministero dei Beni Culturali meno attenta rispetto al passato al patrimonio archeologico sommerso. Gli interessi e gli entusiasmi da parte di tanti appassionati studiosi comunque non mancano e confido in una buona ripresa non appena le condizioni ce lo consentono.

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