Psicologia dell’immersione

Psicologia dell’immersione

Dott. Giancarlo Macrì Facciolo

Psicologo, psicoterapeuta, docente formatore. Esperto in terapia di coppia, terapia familiare, disturbi dell’umore ed elaborazione del trauma mediante tecnica EMDR.
Dal 1998 operatore nel Terzo Settore napoletano e psicologo presso il Polo Territoriale per le Famiglie del comune di Napoli.
Da molti anni studioso di aspetti psicologici e psicoterapeutici relativi all’immersione subacquea ricreativa e professionale.

L’attacco di panico di origine traumatica

“Mi trovavo a circa 16 di profondità lungo una parete quando ad un certo punto, mentre mi avvicinavo con la maschera vicino ad un anfratto, sentì il bisogno di dover respirare col naso e la percezione di soffocare, non potendo ovviamente respirare col naso a causa della maschera! Mi venne spontaneo avvicinare la mano alla maschera per toglierla, ed in quel momento cancellai dalla mia mente sia il fatto che l’aria potesse entrare attraverso la bocca, sia che togliendo la maschera avrei rischiato di annegare! Iniziò a mancarmi l’aria! E a quel punto, sentivo il bisogno di inspirare con il naso a tutti i costi perché avevo paura di soffocare! Pensai: “NON POSSO respirare!” adesso muoio”! Se solo ci penso adesso, mi viene di inspirare profondamente. Ricordo che mi guardavo intorno, e in tutte le direzioni, e così mi ricordai di poter chiedere aiuto al mio accompagnatore: così, mentre percepivo l’erogatore come un fastidio in bocca e la necessità di respirare col naso, iniziai a pinneggiare verso di lui, che per me rappresentava l’ascensore per la risalita, e immaginavo di poter star meglio solo dopo essermi tolto di dosso la maschera e la muta! Ricordo che, dirigendomi verso di lui, la paura usciva via attraverso la pinneggiata, e durante la risalita, lo sguardo dell’accompagnatore fisso sul mio, mi trasmise un senso di sicurezza molto forte! Ricordo che nonostante fui soccorso in sicurezza, a me non venne per nulla in mente che, comunque stessi correndo un rischio nel risalire: Il mio unico obiettivo era quello di togliermi la maschera e la muta.

Quando raggiunsi la superficie, il togliermi la maschera e poter respirare con il naso, mi fece sentire meglio, anzi più sicuro, e la paura di morire andava diradandosi, ma dopo aver tolto l’attrezzatura e spogliatomi della muta, sentii che anche la pelle ora poteva respirare: infatti poter sentire l’aria calda mi fece rilassare del tutto ed iniziai ad avvertire un senso di stanchezza”.

Un subacqueo in preda ad un attacco di panico si era tolto l’erogatore e ha cercato di raggiungere la superficie. Ora si appoggia al braccio di un dive master che lo ha fermato e lo sta tranquillizzando. Ha tolto il cappuccio che gli dava un senso di soffocamento e ha problemi di assetto, che cerca di correggere agendo sui comandi del gav. Il dive master ha appena ripreso la frusta lunga che gli aveva passato, e che deve ancora sistemarsi sul corpo, ed è appena riuscito a fargli riprendere il suo normale ritmo respiratorio con il suo erogatore, che aveva abbandonato in un primo tempo.

Chi di noi ha provato, almeno una volta nella propria vita sott’acqua un attacco di panico? Si calcola che almeno la metà dei subacquei partecipanti a ricerche sulla diffusione di questo disturbo, lo abbiano sperimentato almeno una volta e che, nel 30% delle volte, l’attacco di panico sia stato responsabile di conseguenze serie.

Quello sopra riportato è il frammento del racconto di un paziente seguito alcuni anni fa, colto da un attacco di panico in immersione; e dall’anamnesi emerse che il paziente avvertiva un senso di tachicardia e di disagio generalizzati, già prima dell’immersione, mentre preparava l’attrezzatura.

Tanti pazienti descrivono l’attacco di panico come una grossa onda improvvisa, che si propaga da un punto del corpo, cogliendoli di sorpresa, e li travolge come in un turbine di paura e di tachicardia: alcune volte si offusca anche la vista! Colto da attacco di panico ci si sente improvvisamente al centro di un’alterazione psicofisica dove si avverte una crescente emozione di paura, associata alla percezione che stia accadendo qualcosa di minaccioso alla propria vita. Per cui, ad un certo punto, scatta una reazione di fuga da ciò che si sta vivendo o svolgendo.

Nel caso di un subacqueo questo quadro di attivazione può rappresentare un duplice rischio sia a breve che a lungo termine: nell’immediato si perde quel necessario livello di controllo psicofisico che ci conserva sufficientemente lucidi per gestirci durante l’immersione.

A lungo termine il subacqueo in immersione (come allo stesso modo il paziente in superficie) si avvita in una spirale per la quale limita la sua vita, rinuncia alle immersioni (e quindi alla sua passione) spaventato dalla prospettiva di essere colto da un'altra crisi di panico. Per cui l’effetto a lungo termine è attuare una strategia di evitamento dell’immersione per paura della paura!

La letteratura clinica ci ricorda che l’attacco di panico può insorgere associato non solo a disturbi d’ansia, ma in qualsiasi condizione di disagio psichico e, sebbene il suo esordio può sembrare che colga la persona d’improvviso, una serie di fattori stressors possono contribuire all’esordio. Ad esempio uno stile di vita particolarmente stressante o una fase che la persona sta vivendo nei suoi ambiti di vita: dalle relazioni affettive, a quelle familiari, o legato al lavoro. Senza dimenticare i ricordi di eventi traumatici che rappresentano un fattore invisibile, ma presente nella psiche, che procura dolore psichico quando viviamo un evento nella vita reale che riattiva il ricordo.

Contestualizzando gli attacchi di panico in immersione, possiamo suddividerli in:

1) crisi da panico in presenza di uno stimolo: rappresentato da un imprevisto legato alle condizioni del mare, oppure all’immersione soprattutto in grotta, o su relitto, o in immersione profonda dove l’avvicinarsi a questi siti può generare un senso di attesa penosa di qualcosa elaborato dalla psiche, come minaccia alla propria vita.

L’esperienza clinica quotidiana suggerisce che un'altra possibile fonte di stress può derivare dall’attrezzatura e più precisamente, dalla relazione tra il subacqueo e l’attrezzatura! Sembra scontato indossare l’attrezzatura o imparare ad usarla, ma se ci fermiamo a riflettere, ciò che trasforma una persona comune in subacqueo, prima di tutto, è proprio l’attrezzatura: la muta ad esempio rappresenta la pelle per un subacqueo, e grazie alle pinne noi possiamo sostituire la camminata con la pinneggiata! Senza contare i cambiamenti necessari nell’atto respiratorio dove occorre imparare a “trattenere” la respirazione nasale tipica della superficie, per respirare attraverso l’erogatore. Insomma: una sequenza di azioni e percezioni attraverso cui la persona familiarizza con l’attrezzatura per trasformarsi in subacqueo!

Può sembrare una sequenza ovvia per un esperto dei fondali, ma un cambiamento fonte di stress per un individuo particolarmente sensibile a certi cambiamenti nell’interazione con l’ambiente esterno e in psicoterapia nulla viene dato per scontato, anzi il lavoro terapeutico serve proprio ad esplicitare l’ovvio! Per cui la relazione del subacqueo con l’attrezzatura può rappresentare in alcuni casi un fattore di stress che contribuisce all’insorgere dell’attacco di panico.

2) crisi da panico in assenza di uno stimolo evidente, dove il subacqueo sembra non esporsi ad alcun fattore di stress e avverte l’attacco a “ciel sereno”, e (per cui in realtà una serie di micro stressors possono innescare una reazione a catena che, stimolando sia aspetti psichici che somatici, alzano l’onda dell’attacco di panico che poi andrà ad abbattersi sul subacqueo.). In questa categoria rientra l’attacco di panico di natura traumatica.

Per fronteggiare la crisi da panico in presenza di uno stimolo, si contano numerose strategie di intervento, molto valide nel tentativo di ridurre sia i rischi che le conseguenze: tra tante valgono quelle di matrice cognitivo comportamentale: ossia un paradigma che valorizza la capacità del paziente di riuscire a individuare i pensieri ed i comportamenti disfunzionali per poi modificarli. Il subacqueo viene addestrato a mantenere il contatto con la realtà e concentrarsi sul respiro. Da questo approccio derivano strategie per fronteggiare momenti critici in immersione e approcci psicoterapici, centrati sull’elaborazione di vissuti traumatici ( E.M.D.R.).

Ma molto spesso non basta addestrare il subacqueo a fronteggiare il problema sott’acqua, ma occorre aiutare la persona in superficie attraverso un percorso psicoterapeutico che, partendo dal sintomo, anzi ponendo il sintomo come filo di Arianna, conduce terapeuta e paziente nel profondo di ricordi traumatici rimasti in memoria, cioè mai elaborati e che possono paradossalmente emergere sotto forma di comportamenti o pensieri intrusivi quando ci immergiamo, generando una reazione a catena che poi conduce all’attacco di panico. Per cui descriveremo questo fenomeno ed un possibile trattamento di cura, spingendoci oltre la psicologia, immergendoci nella psicoterapia, soprattutto per descrivere prima cosa sia un ricordo traumatico, e poi il concetto di sintomo.

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Il fotografo ha colto lo sguardo di questo subacqueo, carico di tensione, a cui si sono rotti i cinghiaggi del gav, al quale aveva oltretutto collegato anche due bombolini decompressivi. Con un trim completamente sbilanciato e un’attrezzatura quasi incontrollabile, ha dovuto effettuare una difficile risalita fino alle tappe di decompressione e permanere alle relative quote tenendosi alla cima dell’ancora; Il tutto aiutato da un compagno che non appare nell’inquadratura. Dai suoi occhi traspare l’agitazione e la preoccupazione di perdere il controllo della situazione e di non riuscire a mantenere un giusto assetto. Lo stress lo porta a non controllare bene anche l’erogatore del gas decompressivo che appare tutto deviato sul suo lato sinistro e appena trattenuto a forza con la bocca. Immediatamente dopo questo scatto i compagni d’immersione sono nuovamente intervenuti per aiutarlo a controllare meglio l’attrezzatura, e a far fronte al cedimento dei cinghiaggi, per finire le necessarie soste di decompressione.

Il ricordo traumatico

Nell’episodio da panico di natura traumatica, lo stimolo NON è rappresentato da una condizione esterna, ma si trova dentro di noi, dove la psiche continua a lavorare a nostra insaputa producendo collegamenti tra ciò che viviamo e il nostro mondo interiore fatto anche di ricordi non solo piacevoli: infatti un qualsiasi evento può risvegliare sia un ricordo che genera conseguenze piacevoli in termini di ricordi, sia ricordi (traumatici) che generano una reazione incongrua e disfunzionale come un attacco di panico.

Ma cosa intendiamo per ricordo?

Nel corso della vita, gli eventi che viviamo lasciano una traccia nella memoria ossia il ricordo che a sua volta per essere memorizzato viene scomposto in diverse parti conservate in varie aree della nostra mente e del corpo: una parte emotiva, ossia l’emozione che quel ricordo suscita, una parte cognitiva: ossia il pensiero che quell’evento ha generato. A sua volta la parte emotiva del ricordo talvolta noi la avvertiamo in una parte somatica cioè localizzata in un punto preciso del nostro corpo, come un nodo alla gola, un peso allo stomaco, le spalle pesanti ecc. Infine ma non meno importante, resta una traccia video del ricordo: ossia un’immagine associata alle emozioni e che spesso ci riporta all’evento traumatico iniziale mentre viviamo un evento simile. Ora, se ciò che viviamo viene elaborato come un evento non minaccioso per la nostra vita, il ricordo viene collegato alla catena di eventi che si susseguono nella nostra quotidianità. Se invece viviamo un evento che percepiamo come minaccia alla nostra vita, allora la nostra psiche da sola non riesce ad elaboralo e connetterlo al flusso di eventi. Quindi, dopo averlo scomposto, lo rimuove nascondendolo alla nostra parte cosciente: in questo modo però il ricordo resta attivo e, ogni volta che viviamo qualcosa che si associa al ricordo traumatico, per immagini, per emozioni e pensieri, allora scatta la paura e la reazione ad essa connessa! Per cui un ricordo traumatico è la traccia mnestica di un evento che abbiamo vissuto e che la nostra psiche ha percepito come minaccia alla nostra vita. Quel ricordo viene rimosso ma resta attivo e può venire risvegliato da certi eventi o dettagli impercettibili della vita della persona innescando una reazione di ansia, di paura, di panico, connessi a comportamenti potenzialmente incongrui e pericolosi per la persona nel momento in cui stanno avvenendo.

Nel nostro caso, la semplice maschera sul viso viene percepita come ostruzione nasale che impedisce di respirare fino a morire! In questo modo, la concentrazione del subacqueo, allontanandosi dalla realtà circostante, può fargli perdere il controllo di sé fino a commettere gesti realmente pericolosi per la sua vita sott’acqua. Può innescarsi una reazione a catena di comportamenti di fuga dalle immagini e dal ricordo traumatico, sicuramente disfunzionali alla sicurezza del subacqueo in immersione.

Il sintomo come segnale criptato

In psicoterapia il sintomo può essere descritto come uno stato organico, un comportamento o relazione che sfuggono al controllo della persona assumendo il sopravvento in un momento della vita. Ciò vuol dire che, entro certi limiti, un lieve stato d’ansia può tenere in allerta il subacqueo quanto basta a gestire l’immersione subacquea con discreta sicurezza. Ma quando il livello di ansia o di malessere sfocia in un quadro clinico più complesso ed immediato come un attacco di panico, allora il sintomo assume proporzioni sempre meno gestibili per un subacqueo che converge la sua attenzione verso ciò che percepisce come minaccioso.

Se la percezione di pericolo NON è supportata da evidenti condizioni di pericolo, allora il sintomo può ricondurci ad un vissuto di natura traumatica, come un alert sonoro del computer subacqueo, il sintomo “avverte” il paziente che sta accadendo qualcosa che non va, nel nostro caso che nella psiche del subacqueo si sta muovendo un ricordo traumatico risvegliato dalla realtà esterna. E, nel nostro caso, il disagio derivante dalla semplice ostruzione nasale della maschera, preceduto da uno stato d’agitazione durante i preparativi, ha contribuito ad innescare una reazione a catena degenerata nel panico.

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La penetrazione in grotte profonde e molto buie, se effettuata senza un’adeguata preparazione tecnica e psicologica, e senza l’ausilio di una doppia fonte luminosa, va sempre considerata come un comportamento irresponsabile. Infatti il più banale inconveniente, se non si ha la pronta capacità di gestirlo, può rapidamente generare un attacco di panico difficile da controllare.

La psicoterapia

Trovandosi travolto da un attacco di panico di natura traumatica, o per meglio dire: trovandosi il subacqueo in preda ad un ricordo traumatico, le strategie per fronteggiare eventuali crisi non potevano risolvere il problema. In questi casi un intervento di natura psicoterapica rappresenta una cura possibile ad un male la cui regia non risiede né nel presente, né sott’acqua.

La psicoterapia è durata 2 anni circa con un follow-up dopo sei mesi e alcuni incontri avvenuti nel periodo estivo soprattutto dopo le immersioni, per fornire al paziente la sicurezza e la presenza necessarie per riconvertirlo in un subacqueo! Sul piano dei contenuti, il lavoro fu improntato al paradigma cognitivo-comportamentale, in particolare alla tecnica EMDR, utilizzata in psicotraumatologia per aiutare le persone coinvolte in disastri naturali, climatici, o da violenza, ad elaborare il vissuto traumatico.

Terapeuta e paziente si sono immersi verso le profondità della memoria partendo dalla paura di non respirare suscitata dall’ostruzione nasale dovuta alla maschera, che ha rappresentato il “filo di Arianna” del nodo sintomatico. Durante il colloquio anamnestico il paziente ha ammesso che durante la preparazione dell’A.R.A. avvertiva un senso di ansia e agitazione: reagiva, infatti, con una sorta di “fretta” nel doversi preparare e paura credendo che qualcosa, andando storto, attirasse l’attenzione degli altri ed un eventuale giudizio di incapacità! Questo dettaglio lo riportò ad un’immagine di lui, ragazzo, mentre caricava l’attrezzatura sulla barca, e iniziava a preparare il gruppo A.R.A. su quel gozzo di legno azzurro. Ricordava di essere il più giovane del gruppo: dove non si sentiva solo un principiante circondato da sub esperti ma un bambino in mezzo a tanti adulti. Questa condizione lo faceva sentire inadeguato e costretto a dimostrare di essere all’altezza della situazione. Ma questo ricordo lo riportò ancora più indietro quando, all’epoca ragazzino, si iscrisse ad una scuola sub perché voleva “imitare i grandi” che dalla spiaggia vedeva prepararsi ed imbarcarsi su quel gozzo azzurro per effettuare un’immersione. Ricorda che quando poi iniziò il corso (all’epoca durava circa un anno, tra esercitazioni in piscina, tecniche di salvataggio, immersioni ed esame) riuscì a quantificare l’impegno e la difficoltà richieste per la subacquea. Tutto ciò a suo tempo sedimentò in lui la rappresentazione di se stesso, come di un ragazzino tra i grandi e non all’altezza dell’impresa. Ma emerse altro materiale mnestico: esplorando Il periodo del training, affiorò il ricordo della formazione in piscina: una struttura poco riscaldata e con spifferi d’aria fredda nei periodi invernali di sera. Ricorda i primi esercizi in immersione con l’erogatore dove restava seduto sul fondo vasca a respirare con la bocca mentre il naso era ostruito e la testa che gli scoppiava per il freddo. Ricordava la paura che avvertiva in gola fino ad espandersi in tutto il corpo, e la sua spinta a salire in superficie pinneggiando a fatica per tenersi a galla senza gav che, all’epoca non era previsto! Queste condizioni sedimentarono in lui una convinzione negativa di dover rimanere in immersione senza respirare e questo gli faceva affrontare l’intera immersione come un atto dovuto che un bambino deve compiere dimostrando di essere all’altezza dei grandi e dover subire una catena di eventi innaturali come respirare con la bocca ed il naso ostruito!

Il lettore potrebbe trovare questo vissuto come assurdo: ma la convinzione negativa è il risultato dall’elaborazione cognitiva di un evento percepito come minaccioso che, per quanto falsa, tuttavia convince la persona che ciò in cui crede sia vero, e non ci sono modalità diverse di ripensare a se stessi in quell’evento! La convinzione negativa si riattiva, associata alla paura ogni volta che il paziente rivive condizioni o eventi che possano risvegliare il ricordo traumatico (cosiddetti eventi-trigger) rappresenta uno tra i primi elementi da destrutturare con la psicoterapia e, dopo aver raggiunto il fondo in cui si trovava il ricordo primario, ossia il periodo passato del training, terapeuta e paziente iniziarono una risalita controllata verso il presente, seguendo un percorso di ristrutturazione dei pensieri e delle emozioni disfunzionali di origine traumatica. Il paziente imparò prima di tutto a riconoscersi adulto lì dove prima reagiva all’immersione come se si percepisse un finto adulto, ossia un ragazzino. E raggiungere questa tappa gli permise di decomprimere il senso di ansia e disagio avvertiti durante i preparativi dell’immersione. Ci si diresse poi verso il senso di soffocamento avvertito in immersione dove, alla psicoterapia fu aggiunto un esercizio di rinforzo: venne suggerito infatti al paziente di praticare snorkeling in superficie, senza scendere in apnea, con la raccomandazione di concentrarsi sulla pinneggiata e sulla respirazione “a bocca aperta” con lo snorkel. Avrebbe dovuto annotare emozioni e pensieri prodotti durante l’esercizio, per poi riportarli in terapia dove venivano affrontati sistematicamente. In questo modo, nel paziente, quella convinzione negativa generata da un ricordo traumatico nell’infanzia, cedette il posto ad una convinzione positiva, che con la bocca si può respirare e che la muta non è sinonimo di costrizione alla gola e quindi di soffocamento: infatti il lavoro interessò non poco la relazione del subacqueo con la propria attrezzatura ossia in quel punto dove fino a qualche tempo prima si innescava la reazione a catena della paura e del panico, e il significato simbolico che essa rappresentava per lui.

La psicoterapia ha permesso di partire dal sintomo avvertito nella quotidianità, tornando indietro, a ritroso verso il passato, fino a quegli eventi che hanno pian piano strutturato il vissuto traumatico, per poi ripartire verso il presente fino al punto in cui il sintomo ci ha bloccati nella nostra quotidianità, ed in tutto questo viaggio, non è mai venuta meno la presenza costante del terapeuta al fianco del paziente. In psicoterapia, come in immersione, la riuscita in termini di sicurezza è garantita dalla relazione con l’altro: per cui è più corretto parlare di relazione terapeutica, ossia quella relazione d’aiuto che ha fornito la sicurezza ed il supporto necessari al paziente per elaborare i suoi vissuti traumatici nella risalita dal passato della propria storia fino al presente dove si è ri-scoperto persona…anzi subacqueo. Il terapeuta si pose come atteggiamento di supporto, in continuità con la figura dell’accompagnatore che trasse in salvo il paziente in preda al panico. In questo modo il paziente ha trovato nella relazione terapeutica, un luogo sicuro dove poter sperimentare ed elaborare i propri vissuti traumatici in sicurezza uscendone vivo. Un percorso terapeutico che si diluiva lentamente proiettando il subacqueo verso un futuro di immersioni sicure.

Conclusioni

Se l’attacco di panico è come un’onda che ti travolge, le cure psicologiche attraverso la relazione terapeutica, ti aiutano a rimanere in mare e fare il bagno tra i cavalloni! Perché siamo subacquei ed in fondo abbiamo deciso di non voler uscire mai da quel liquido amniotico che da adulti per noi è il mare! Nelle molteplici forme di malessere psichico non si guarisce, nel senso che noi diamo al concetto di guarigione. Occorre crescere, e possiamo crescere solo chiedendo aiuto ad una relazione che ci infonda sicurezza e protezione. Che sia l’accompagnatore, il compagno di immersione o il terapeuta, dove c’è una relazione vuol dire che ci sono due strade che possono unirsi per un certo tempo, per viaggiare insieme, dal profondo di un ricordo traumatico fino alla superficie della vita (e delle immersioni) di tutti i giorni. Se per guarire dai malesseri psichici occorre crescere, la relazione terapeutica ci aiuta a crescere e, nella misura in cui riusciamo a riconvertire il sintomo in un alleato che ci avvisa che qualcosa minaccia la nostra salute mentale, riusciamo anche a riconvertirci da pazienti a persone guarite o, in questo caso, in subacquei.

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L'esplorazione di un interno di un relitto deve essere sempre affrontata con la giusta preparazione e programmazione. Bisogna essere mentalmente preparati ad affrontare un’ambiente angusto, pieno di possibili e pericolosi appigli e dove non sono da escludere possibilità di crolli delle strutture ormai indebolite dalla corrosione. In queste condizioni, alla minima difficoltà, le possibilità di entrare in uno stato emotivo di stress, possono essere molto alte.

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