Psicologia dell’immersione – L’immersione come una psicoterapia


Nonostante siano passati già diversi anni da quando si sono sviluppate le attività subacquee, e progressivamente nel tempo è aumentato il livello delle attrezzature, della formazione didattica, degli studi di medicina subacquea ed iperbarica, non si può dire altrettanto sugli studi degli aspetti psicologici dell’immersione. La mole di letteratura scientifica che pur esiste a livello internazionale sull’argomento, non è tuttavia quantitativamente paragonabile a quanto si è invece studiato e scritto su vari temi di carattere medico subacqueo.
Abbiamo quindi voluto dare uno spazio fisso a questa materia su La Marea, che crediamo sia di interesse per i nostri lettori. In questo numero abbiamo il piacere di presentare un interessante articolo di un appassionato psicologo e psicoterapeuta, il Dott. Giancarlo Macrì Facciolo, che oltre ad essere un appassionato subacqueo, si dedica da tempo ad indagare l’approccio psicologico all’immersione, arrivando a concepire e utilizzare la stessa anche come strumento di psicoterapia.


L’immersione attiva dal primo contatto con l’ambiente subacqueo meccanismi introspettivi che modificano la percezione del mondo esterno con stimoli fortemente positivi e attrattivi, generando uno stato di rilassamento, di pace e di concentrazione. Una sorta di stato di grazia, una consapevolezza di mancanza di qualsiasi tensione e necessità, aumentato dal senso di percezione tridimensionale rispetto a quello bidimensionale terrestre.

 
foto di Umberto Natoli
 

L’immersione come una psicoterapia. La psicoterapia come un immersione in coppia.

Dott. Giancarlo Macrì Facciolo


Psicologo, psicoterapeuta, docente formatore. Esperto in terapia di coppia, terapia familiare, disturbi dell’umore ed elaborazione del trauma mediante tecnica EMDR. Dal 1998 operatore nel Terzo Settore napoletano e psicologo presso il Polo Territoriale per le Famiglie del comune di Napoli.

Quando inizia un immersione? Può sembrare una domanda banale, o forse no: forse inizia quando contattiamo il diving? La mattina dell’immersione? Quando prepariamo l’attrezzatura o quando svuotiamo il gav iniziando la discesa sotto il pelo dell’acqua? Ma procedendo con leggerezza verso una progressiva complessità, potremmo anche chiederci quando termina un’immersione, o meglio: quando abbiamo la percezione di averla conclusa? Quando ci togliamo la maschera in superficie? quando risaliamo in barca o sulla terra ferma? Oppure dopo aver smontato e risistemato l’attrezzatura? Ad esempio molti subacquei avvertono uno stato di agitazione man mano che si avvicina il momento di immergersi. In altri casi la preparazione dell’attrezzatura rende nervosi e la tensione aumenta via via che ci si prepara. Per molti il momento del tuffo per immergersi rappresenta una liberazione: il culmine di un rituale preparatorio ansiogeno mentre per altri, è in quel momento che inizia l’immersione. Tanti nostri comportamenti o azioni li definiamo semplici solo perché li eseguiamo in maniera meccanica o scontata.
Ma non appena ci soffermiamo sulle varie fasi dell’immersione, passando al microscopio le singole azioni, scopriamo che esse rappresentano una serie di sequenze con un significato profondo ed una storia che parla di noi e del nostro legame con il mare: un legame antichissimo e sempre attuale, che svela la profonda connessione tra le scienze umane e la natura. Un legame che ha sempre posato per ispirare l’arte e la letteratura, mentre la ricerca medica e la psicologia ne hanno studiato i meccanismi di interazione e sopravvivenza del corpo umano immerso nel mare e il significato simbolico che lega l’uomo e il mare.
Tant’è che già nel IV secolo A.C. Aristotele si interrogava su come prolungare la permanenza dei pescatori sott’acqua, mentre nel 1680 l’italiano A. Borrelli progettava delle pinne per far nuotare l’uomo come una rana! Con R. Boyle la subacquea somiglia sempre più ad una scienza e nel 1964 abbiamo il Primo Simposio di Medicina subacquea dove il medico sportivo Gianfranco Bernardi presenta un lavoro dal titolo: “Psicologia dello sport subacqueo”. Da allora la psicologia si è spinta oltre fino ad individuare il significato che la nostra psiche attribuisce al nostro immergerci nel blu profondo.

La discesa: un ritorno all’arcaico…

Quando iniziamo la discesa al di sotto della superficie del mare, molti subacquei lamentano uno stato di agitazione generalizzata che aumenta con la profondità raggiunta, fino a configurarsi come reazione da panico. Al contrario, in altri questo favorisce uno stato di rilassamento, calma, pace, concentrazione. E non è raro sentire subacquei che riferiscono di raggiungere uno stato di calma solo andando sott’acqua. Alcuni riferiscono che la mancanza di rumore e la necessità di concentrarsi su parametri fisiologici come il respiro, li induce in una sorta di stato di grazia, un senso di protezione e di mancanza di qualsiasi tensione e necessità.
Ma da dove scaturisce questa percezione di benessere generalizzato? La discesa ci obbliga a una maggiore concentrazione sul nostro mondo interiore trasformando l’immersione subacquea in un immersione introspettiva in noi stessi.
Con la progressiva discesa sott’acqua, inizia anche la fase di adattamento del nostro corpo e della nostra mente alla vita sottomarina: ci esponiamo all’aumento della pressione, il colore delle profondità altera la percezione dei nostri colori modificandoli. Aumenta la percezione del nostro corpo, e i continui “controlli” sulla respirazione, unitamente al “ronzio del silenzio”, e all’assenza di gravità, ci consente un maggiore senso di posizione del nostro fisico nello spazio, con una percezione tridimensionale rispetto a quella bidimensionale terrestre. Tutta questa esposizione a stimoli nuovi è come inviasse segnali insoliti alla nostra mente che, non riuscendo a tradurli attraverso le lenti utilizzate di solito in superficie, si vede costretta a cambiare registro per poter dare un senso a quanto di inconsueto sta accadendo al mondo intorno a noi e dentro di noi. Per comprendere il modo in cui la mente interpreta ciò, viene in nostro soccorso la psicanalisi a spiegarci che la nostra mente, per elaborare tutte le informazioni che riceve dal mondo esterno, in pratica attinge ad un bagaglio di ricordi antichissimi sedimentati come una serie di reperti archeologici nella nostra memoria.
Secondo la psicanalisi in pratica l’essere umano ha già effettuato una primordiale immersione quando il feto si è formato “immerso” nel liquido amniotico durante la vita intrauterina. In quella fase abbiamo sperimentato per la prima volta, e per molti è stata anche l’unica, quel senso di calore e sicurezza che ci accompagnerà per tutta la vita, conservato come ricordo primario, nascosto da qualche parte nella nostra memoria e che viene rievocato con l’attività subacquea. Per cui, per leggere le repentine trasformazioni che avvengono durante la discesa dell’immersione, la nostra psiche è come se rinunciasse al registro utilizzato solitamente in superficie per attingere ai ricordi primordiali, rievocati dall’immersione appunto, e li utilizza per leggere tutte le informazioni generate dalla nuova interazione sottomarina.
”I suoni delle piccole pietre o della sabbia, i movimenti dei pesci, la vibrazione dell’acqua, attivano la memoria dell’esperienza acquatica primaria” (Gargiulo) . E questo ci risveglia il ricordo delle sensazioni di rilassamento, o paura, avvertite durante la nostra vita intrauterina.
Per cui quando parliamo di immersioni, in realtà stiamo andando ben oltre il legame tra l’ uomo ed il mare fino a descrivere un viaggio nel profondo della nostra psiche e nel passato dei nostri ricordi più antichi che ci riportano alla nostra vita intrauterina nuotando in quel liquido amniotico che è il mare.

 
foto di Umberto Natoli
 

L’immersione subacquea con un gruppo, ma già con un solo compagno, costituisce un’esperienza relazionale, dove interferiscono vari elementi che evolvono verso un concetto di esperienza protetta e condivisa. Il gruppo, piccolo o grande che sia, svolge la doppia funzione di infondere un senso generale di sicurezza, e di fiducia nelle capacità risolutive di eventuali problematiche con l’apporto di tutti, ma anche come entità di riferimento con cui condividere la gioia di un incontro con una specie marina, la suggestiva visione di un paesaggio sommerso, la scoperta di un manufatto antico.

Gli aspetti relazionali trasformano l’immersione in una rinascita.

Ma per tanti di noi, l’immersione rappresenta anche un’occasione per ritirarsi dal mondo relazionale come bambini in una stanza protetti dal confronto sociale: dove si può giocare da soli e, sempre da soli, proclamarsi capitani senza ciurma, facendo rotta verso avventure immaginarie. Una stanza piena di giocattoli e ricordi, dove poter stare soli con le proprie ferite interiori convinti di poterle curare da soli, forse spaventati dall’idea di potersi affidare alle cure di qualcuno. In quest’ottica l’immersione viene vista non tanto come un ritorno alle origini ma come un luogo dove rifugiarsi lontano da quella dimensione di relazione reale che lasciamo in superficie e che rappresenta un banco di prova delle nostre fragilità, sempre relazionali. Tuttavia è proprio nella dimensione relazionale che noi possiamo impattare con i nostri limiti per trasformarli in risorse. Per cui, se inizialmente ci siamo chiesti quando inizia o termina un’immersione, comprendendo la complessità del significato dell’immersione nel rapporto tra l’uomo ed il mare, ora possiamo chiederci: in che modo l’immersione può rappresentare un’occasione di trasformazione e di crescita?

Subacquea e psicologia relazionale.

La risposta forse risiede nel concetto di relazione! Un’idea del noi non esattamente goliardica dove un insieme di persone mimetizzano nella folla le loro fragilità sociali, ma una dimensione relazionale in cui simbolicamente siamo allo stesso tempo seme da piantare in qualcuno e terreno da curare da parte di qualcuno.
Noi tutti sappiamo che ci si immerge in coppia ed in gruppo; ma quanti di noi riescono a reggere la dimensione di coppia anche in immersione? Tante volte mi è capitato di immergermi in un'organizzazione diving facendo coppia con subacquei, che una volta sott’acqua, dopo una prima fase di “acrobazie subacquee” fatte di avvitamenti, capovolte e movimenti per liberarsi delle fruste avvolte intorno al corpo, sparivano poi senza neppure guardarsi intorno per cercare il compagno. Comportamenti, questi, densamente impregnati di significato relazionale. Seguendo infatti i “5 Assiomi della Comunicazione Umana” sappiamo che tra due persone “è impossibile non comunicare”, che si comunica soprattutto con i comportamenti e che ciò che comunichiamo impartisce una direzione alle relazioni. Per cui noi siamo in grado di “fare relazioni” dentro e fuori dall’acqua. Ma la domanda è: ne siamo consapevoli? Cosa cambierebbe se comprendessimo che noi comunichiamo sempre e non solo con le parole? E se anche sott’acqua esprimessimo uno stile relazionale? Con i nostri comportamenti, cosa comunichiamo all’altro, sia sott’acqua ed in superficie? Nell’esempio appena riportato il messaggio che ci arriva probabilmente è: “non mi chiedere di prendermi cura di te, che a stento riesco a badare a me!” Pertanto: se la psicanalisi raffigura il mare come una sacca amniotica in cui l’uomo, immergendosi, vi fa ritorno, la psicologia relazionale fornisce una chiave di lettura che riesce a bucare la sacca amniotica trasformando la dimensione fantastica nella quale ci troviamo sott’acqua in un’esperienza trasformativa: una rinascita costante, una risalita alla superficie dove ci attende quel banco di prova rappresentato dalle relazioni e dalla realtà. La dimensione relazionale trasforma l’immersione in un esperienza terapeutica di cambiamento e crescita.
A questo punto passiamo dalla raffigurazione psicanalitica dell’uomo nel mare, alla rappresentazione relazionale della relazione umana nel mare come luogo di incontro attraverso la metafora della “psicoterapia” ossia la relazione tra il terapeuta ed il paziente!

 
foto di Umberto Natoli
 

L’esplorazione di un relitto, affondato a seguito di eventi bellici o a causa di una tempesta o di una collisione, non può che generare a livello conscio e inconscio sensazioni di drammaticità. Nella mente riaffiorano analogie spesso non perfettamente percepite dall’io cosciente, ma che rimandano ad eventi e ricordi della vita di un individuo, dove riaffiorano esperienze di sofferenza per un “naufragio” in senso lato o di perdita di un bene materiale. Il subacqueo tende sempre a cercare con la mente tra le lamiere corrose e incrostate, tracce di vita di chi vi navigava, ossia un legame con una tranquilla normalità, antitesi della tragedia.

Dal sintomo alla relazione

Ma prima di concentrarci sulla cura degli aspetti relazionali dell’immersione, forse bisogna chiarire il significato del sintomo nelle cure psicologiche: esso rappresenta uno stato organico, un comportamento o una relazione che escono fuori del controllo della persona: ad esempio una reazione d’ansia o un umore depresso, se sono causati da un evento preciso, oppure dall’attesa di qualcosa che deve accadere, per quanto ci arrechino disagio, tuttavia se ne può risalire ad una causa concreta. Ma se questo stato organico, o comportamento o relazione si presentano improvvisamente, inficiando il regolare svolgersi della nostra vita, essi rappresentano una reazione incontrollata attivata in certe circostanze e che hanno avuto origine quando nella nostra vita è accaduto qualcosa che ci ha fatto perdere la rotta.
Pertanto un sintomo fuori controllo è a sua volta sintomo di una vita di cui in un preciso momento abbiamo perso il controllo: la rotta del nostro viaggio. Ma se volessimo creare un parallelismo con l’immersione, come facciamo noi a perdere la rotta? Quando perdiamo di vista il gruppo o il compagno con cui facciamo coppia. Durante l’immersione, probabilmente “immersi” in quello stato di benessere e quiete citato sopra, dove prevale la percezione di noi stessi, accade che il nostro sguardo riflettendosi nel vetro della maschera guardasse dentro e non fuori perdendo la percezione relazionale della vita a due simboleggiata dall’immersione in coppia. In questo modo, oltre a rischiare di perderci, esponiamo a potenziali rischi sia noi stessi che il nostro accompagnatore.
Ricordo che durante un’immersione effettuata dopo alcuni anni in cui non mi immergevo, ad un certo momento di permanenza sul fondo, iniziai ad avvertire un aumento del battito cardiaco, associato al senso somatico di oppressione al naso seguito dal bisogno di respirare senza maschera. Mi guardavo intorno alla ricerca di una superficie troppo lontana. Poi, facendo appello al mio senso di realtà, salii leggermente di quota concentrandomi sul mio compagno di immersione, convincendomi che lui avesse bisogno di me, per cui iniziai a “volteggiare” a distanza debita sulla sua bombola con senso di protezione. Questa strategia oltre a distrarmi dai primi sintomi di una reazione da panico mi fece riflettere sul valore trasformativo che può assumere un’ immersione quando ti dedichi all’altro e soprattutto imparai che non vi è luogo dove non esistano relazioni la cui cura oltre a salvare la vita, fa anche crescere.
E infatti, in varie forme di malessere psichico, guarire fa rima con crescere insieme nel senso che occorre una guida che ci aiuti a decodificare il sintomo ed a ritrovare la rotta dopo averla persa in un determinato momento della vita. Tuttavia non possiamo crescere ( né immergerci) da soli. Chi crede di riuscire a farsi da guida ed è disperso allo stesso tempo, talvolta corrisponde al subacqueo che pur partecipando ad un’uscita domenicale o scendendo in compagnia tende ad isolarsi nella folla ed in coppia, sia in superficie che sott’acqua.

 
foto di Umberto Natoli
 

Nell’esplorazione di una grotta, di un passaggio, di un ambiente ostruito in genere, il subacqueo attiva un meccanismo di introspezione nel proprio io, attratto dal fascino della natura più profonda dell’essenza delle cose. Cosa ci sarà nel buio più assoluto che io rivelo con il fascio della mia torcia? Riuscirò a trovare qualcosa di bello e sorprendente nascosto nell’oscurità?

L’immersione terapeutica: la relazione

A questo punto per comprendere quanto sia importante valorizzare gli aspetti relazionali durante l’immersione, possiamo interpretare la discesa a due come se fosse appunto la relazione terapeutica tra lo psicologo e il paziente durante la psicoterapia, dove terapeuta e paziente (che sia una persona singola, una coppia o una famiglia) creano un unico sistema che, come un gruppo di subacquei effettua una discesa protetta verso il profondo, ed a ritroso della propria storia alla ricerca del punto preciso in cui si è persa la rotta del proprio viaggio, per poi risalirne trasformati.
Per approcciarci all’immersione come se fosse una psicoterapia e per riflettere sui risvolti terapeutici ed evolutivi che essa può offrire, ci viene in aiuto la teoria dei bisogni dello psicologo americano A. Maslow, il quale classificava i bisogni umani secondo un ordine di priorità e li immagina raffigurati graficamente come una piramide gerarchica (la piramide dei bisogni). In un percorso di crescita, ciascuno di noi risale dai bisogni posti alla base della piramide fino al soddisfacimento dei bisogni superiori, posti in cima, risalendo i vari piani. In quest’ottica la psicoterapia rappresenta un’immersione effettuata in compagnia di un terapeuta dove ci si immerge dirigendosi fino alla base della piramide per poi risalirne i vari piani fino alla riemersione per rinascere alla superficie.
A fornire stabilità alla piramide, l’autore colloca alla sua base i bisogni (e quelle cure) essenziali che garantiscono il funzionamento dell’organismo come il nutrirsi, o il ciclo sonno veglia. Anche la respirazione rientra nei bisogni per la sopravvivenza, e la relazione terapeutica si prende cura dell’individuo fin nelle funzioni primarie. A esempio nel paradigma della “Bioenergetica” coniata dallo psichiatra americano A. Lowen, la modalità con cui il nostro corpo si esprime, rappresenta una traccia lasciata sul soma di un evento vissuto nel passato nella nostra storia. Una postura rigida ad esempio e non armonica, può rappresentare una modalità rigida di presentarci alle relazioni o di affrontare i problemi, appresa dalle generazioni passate o da un esperienza individuale. Oppure una respirazione eccessivamente nasale e non diaframmatica nasce ed alimenta uno stato d’ansia che può rappresentare un tratto o uno stato della persona e della famiglia d’origine. In questo caso la psicoterapia “si prende cura” del paziente ricostruendo (nei limiti del possibile) le funzioni di base della persona ascoltando il significato delle modalità disfunzionali per poi ripristinare uno stile più naturale possibile della persona.

Staccandosi dal fondale su cui poggia la base della piramide, ad un secondo livello troviamo il bisogno di cure e sicurezza, ossia la motivazione a creare dentro sé quella sensazione di sentirsi al sicuro a prescindere dal contesto in cui si vive e da ciò che accade: il senso di sicurezza nasce in seno alla relazione genitoriale che rappresenta, per il bambino, il “tetto e le pareti della sua casa”. Tuttavia per una serie di motivi, può accadere che la relazione genitoriale non riesca a garantire al bambino quella fiducia e sicurezza necessarie, e lo spingono verso una deriva di sfiducia e solitudine. Il bambino si convince così di non meritare calore né affetto impostando una vita relazionale incentrata su se stesso, sempre alla ricerca di una base sicura immaginaria in grado di colmare quel vuoto iniziale della relazione genitoriale.
In questi casi la relazione terapeutica offre una compagnia stabile al fianco del paziente per tutto il tempo necessario a sostare al secondo livello della piramide: un tempo durante il quale il paziente impara a chiedere a se stesso ciò che ha sempre chiesto agli altri divenendone ostaggio e diventare genitore di se stesso, del bambino che si porta dentro sé, passando dalla paura dell’abbandono alla compagnia di se stesso. Salendo di quota, al terzo livello l’individuo sperimenta il bisogno di appartenenza ad un gruppo sociale e legarsi reciprocamente ad una persona attraverso un sentimento. È la fase dell’adolescenza, che riscrive i confini relazionali tra genitori e figli, dove l’individuo investe tutta la sicurezza acquisita fino a quel momento per sperimentarsi nelle relazioni sociali ed affettive, sperando di ricevere in cambio un senso di appartenenza ad un contesto o gruppo sociale. Naturalmente il senso del “noi” risente della reciprocità ossia dalla capacità di dare quanto si chiede di ricevere, per accedere ad una fase più maturata delle relazioni. Questa è la fase in cui si sviluppa il cosiddetto sguardo sistemico: simile ad una sorta di terzo occhio montato su un’astina da selfie che ci permette di guardarci in terza persona nelle relazioni: in questa fase la relazione terapeutica inizia a ritrovare le coordinate perse dal paziente in passato, dove il terapeuta incoraggia il paziente ad effettuare una risalita più controllata, evitando corse in avanti simili ad una fuga nella guarigione che lascia l’altro indietro, consapevoli che più si sale di quota più i bisogni sono legati alla cura delle relazioni.
Risalendo infatti verso la superficie, ci si rende conto che tra le competenze di un subacqueo non possono mancare quelle abilità relazionali che ci consentono di saper osservare il mondo e sapersi regolare nei rapporti con gli altri grazie al terzo occhio relazionale. Al quarto livello incontriamo il bisogno di ottenere e chiedere un riconoscimento ed un immagine positiva di sé. A questa quota il subacqueo comprende che la riuscita della sua immersione non dipende solo dal rispetto scrupoloso dei parametri di risalita, ma anche dal compagno e dal gruppo d’immersione e in quest’ottica la relazione terapeutica si configura come una relazione/palestra dove il paziente si allena alla reciprocità, alla condivisione, ad una partecipazione più attiva della vita relazionale senza lasciarsi trasportare da correnti di bisogni inascoltati. Giunti a pochi metri dalla superficie, dove il pelo dell’acqua ci riconsegna alla realtà relazionale di superficie, in corrispondenza della punta della piramide, effettuiamo un’ultima sosta per appagare un bisogno che somiglia quasi a un sogno che si avvera: la realizzazione di sé. Per soddisfare questa esigenza occorre un “allenamento” nel riconoscere ed appagare i bisogni evolutivi incontrati lungo una risalita della piramide, effettuata accettando la compagnia dell’altro per crescere! Su un piano relazionale questo traguardo comprende la capacità di curare i legami familiari e sociali in una dinamica di reciprocità e condivisione.
Il richiamo dalle scogliere inconsce della nostra psiche, ci attira come un canto di sirene esortandoci a rompere la tensione superficiale dell’acqua e varcare la soglia che separa la superficie dall’abisso. E ciò che trasforma una discesa in un viaggio dentro se stessi, e la risalita in una rinascita, è rappresentato dalla consapevolezza di “esserci nella relazione con l’altro”. Se ci si immerge con lo sguardo puntato verso il basso, dove l’altro è una figura di sfondo, allora si effettua un’ immersione subacquea travolti dalle sensazioni e dalle emozioni. Se invece la motivazione a crescere supera la ricerca di sensazioni forti, allora un’immersione rappresenta una rinascita quanto più questa viene effettuata non solo in mare, ma anche nelle relazioni umane. In questo modo scendere sott'acqua diventa un’ esperienza dove si rivive non solo l’atto del ritornare nel grembo materno ma anche di riuscire da questo, “tirati fuori” da un compagno di viaggio disposto ad accompagnarci a ritroso e nel profondo lungo il nostro percorso di vita, alla ricerca di quelle coordinate perdute in un dato momento della nostra storia.
La possibilità che una relazione ci guarisca o rappresenti un aspetto da curare anche sott’acqua, ci desta perplessità. Ma la relazione è un bisogno, anzi il bisogno più complesso che richiede una maturazione nella gestione di sé e del contesto: come la risalita! In questo la competenza del terapeuta va oltre la sua datata esperienza ad immergersi in un rapporto; egli condivide la rotta con il paziente, ma tiene salda la barra del timone ed è allenato ad immergersi ad ogni nuova relazione per risalirne carico di tesori inesplorati e accumulati durante la risalita.
E mi tornano in mente le immagini di me, subacqueo alle prime armi, quando trascorrevo gran parte delle mie prime immersioni in permanenza sul fondo a dimenarmi goffamente tra le fruste e la zavorra, sferrando un calcio con le pinne al mio accompagnatore che intanto si dedicava a me per tutto il tempo dell’immersione. Oggi, dedicarmi a chi mi sceglie come compagno d’immersione per varcare il confine tra la superficie e il blu più profondo, non rappresenta un ostacolo né un intruso nel mio mondo sommerso, ma la parte mancante che completa la discesa e mi ricorda che senza relazione nessuna immersione può farti risalire diverso da come ti sei immerso.

 

Ma prima di concentrarci sulla cura degli aspetti relazionali dell’immersione, forse bisogna chiarire il significato del sintomo nelle cure psicologiche: esso rappresenta uno stato organico, un comportamento o una relazione che escono fuori del controllo della persona: ad esempio una reazione d’ansia o un umore depresso, se sono causati da un evento preciso, oppure dall’attesa di qualcosa che deve accadere, per quanto ci arrechino disagio, tuttavia se ne può risalire ad una causa concreta. Ma se questo stato organico, o comportamento o relazione si presentano improvvisamente, inficiando il regolare svolgersi della nostra vita, essi rappresentano una reazione incontrollata attivata in certe circostanze e che hanno avuto origine quando nella nostra vita è accaduto qualcosa che ci ha fatto perdere la rotta.
Pertanto un sintomo fuori controllo è a sua volta sintomo di una vita di cui in un preciso momento abbiamo perso il controllo: la rotta del nostro viaggio. Ma se volessimo creare un parallelismo con l’immersione, come facciamo noi a perdere la rotta? Quando perdiamo di vista il gruppo o il compagno con cui facciamo coppia. Durante l’immersione, probabilmente “immersi” in quello stato di benessere e quiete citato sopra, dove prevale la percezione di noi stessi, accade che il nostro sguardo riflettendosi nel vetro della maschera guardasse dentro e non fuori perdendo la percezione relazionale della vita a due simboleggiata dall’immersione in coppia. In questo modo, oltre a rischiare di perderci, esponiamo a potenziali rischi sia noi stessi che il nostro accompagnatore.
Ricordo che durante un’immersione effettuata dopo alcuni anni in cui non mi immergevo, ad un certo momento di permanenza sul fondo, iniziai ad avvertire un aumento del battito cardiaco, associato al senso somatico di oppressione al naso seguito dal bisogno di respirare senza maschera. Mi guardavo intorno alla ricerca di una superficie troppo lontana. Poi, facendo appello al mio senso di realtà, salii leggermente di quota concentrandomi sul mio compagno di immersione, convincendomi che lui avesse bisogno di me, per cui iniziai a “volteggiare” a distanza debita sulla sua bombola con senso di protezione. Questa strategia oltre a distrarmi dai primi sintomi di una reazione da panico mi fece riflettere sul valore trasformativo che può assumere un’ immersione quando ti dedichi all’altro e soprattutto imparai che non vi è luogo dove non esistano relazioni la cui cura oltre a salvare la vita, fa anche crescere.
E infatti, in varie forme di malessere psichico, guarire fa rima con crescere insieme nel senso che occorre una guida che ci aiuti a decodificare il sintomo ed a ritrovare la rotta dopo averla persa in un determinato momento della vita. Tuttavia non possiamo crescere ( né immergerci) da soli. Chi crede di riuscire a farsi da guida ed è disperso allo stesso tempo, talvolta corrisponde al subacqueo che pur partecipando ad un’uscita domenicale o scendendo in compagnia tende ad isolarsi nella folla ed in coppia, sia in superficie che sott’acqua.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI:
1. G. VENZA – S. CAPODIECI, M.L. GARGIULO – G. LO VERSO: “Psicologia e psicodinamica dell’immersione subacquea” Francoangeli.
2. “Pragmatica della comunicazione umana” Paul Watzlawick J. H. Beavin D. D. Jackson
3. Gargiulo M.L. (2002), La dimensione extravisiva nell’immersione subacquea. Relazione presentata al Convegno "Psiche e immersioni" S. Vito Lo Capo 17-19 ottobre 2002.
4. Bioenergetica A.Lowen Feltrinelli
5. M. ZUCKERMAN: Sensation Seeking And Risky Behavior
6. R.AURILIO – M. MENAFRO – M. DE LAURENTIS : “ La Terapia Sistemico-Relazionale tra coerenza e strategia - Francoangeli Editore
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