L’insediamento villanoviano del Gran Carro nel lago di Bolsena – Parte 1

Archeologia subacquea


L'insediamento villanoviano del Gran Carro nel lago di Bolsena

Una visita nell'appassionante realtà di un cantiere archeologico subacqueo e la sua storia raccontate dal nostro condirettore


di Umberto Natoli

Documentare l'intensa giornata di lavoro dei ricercatori di un cantiere archeologico subacqueo, è un'esperienza straordinariamente affascinante, che ho potuto provare in uno dei più importanti siti sommersi d'Europa, l'insediamento villanoviano del Gran Carro, nel lago di Bolsena, in provincia di Viterbo.

A stretto contatto in immersione con la squadra degli operatori, ho potuto così fotografare varie fasi di scavo, di ricerca e di intervento tecnico sui reperti, stando molto attento a non disturbare il loro lavoro e soprattutto a non alterare con il movimento delle pinne il delicatissimo strato di fondale liberato dai sedimenti e pieno di preziosi reperti. E' stata una bellissima occasione di incontrare persone di grande valore professionale e molto motivate dal fuoco sacro della passione per l'archeologia, con cui ho diviso anche piacevoli momenti conviviali alla fine di una lunga giornata di immersioni e di lavoro.

Vi racconto il loro impegno e la storia di questo fantastico luogo.

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Foto Egidio Severi

L’area archeologica sommersa del Gran Carro ripresa da un drone. L’immagine aerea ha permesso di identificarne con buona approssimazione i confini, grazie alle differenze morfologiche che appaiono rispetto al fondale naturale del lago..

Una storia molto affascinante

A portare avanti le varie attività di ricerca, di studio e di scavo è dal 2019, con straordinario impegno, l'archeologa dottoressa Barbara Barbaro, specializzata in archeologia protostorica, funzionaria della Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio dell’Etruria Meridionale, diretta dall'architetto Margherita Eichberg. Il lavoro da lei coordinato, che coinvolge vari studiosi di diverse discipline e l'opera di alcuni volontari, ha dato un nuovo, decisivo impulso a ricerche partite dall'ormai lontanissimo anno 1959, quando un ingegnere minerario, originario di Bolsena, Alessandro Fioravanti, appassionato di immersioni subacquee, di ricerche storiche e di archeologia, scoprì a poche decine di metri dalla riva orientale del lago, e a bassa profondità, i resti di un antico0villaggio palafitticolo, che già dalle sue prime indagini risultò essere di epoca villanoviana, ossia risalente a un’epoca databile attorno al X secolo a.C.. Nei decenni successivi si sono poi succedute varie campagne di scavo, condotte con metodi scientifici sempre più aggiornati, ma caratterizzate da interventi limitati nel tempo e nei mezzi finanziari a disposizione. Finalmente negli ultimi cinque anni, grazie alla sensibilità e alla volontà delle autorità competenti, data la straordinaria importanza del sito, è stato possibile dare continuità e risorse al lavoro dell’equipe della dottoressa Barbaro, che ora si avvale anche di collaborazioni con università e istituzioni in vari campi di ricerca, italiane ed estere..

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L’archeologa dottoressa Barbara Barbaro, coordinatrice delle campagne di scavo, procede assieme all’equipe di lavoro ad una prima valutazione dei reperti recuperati.

Vale la pena ripercorrere sinteticamente le varie fasi di questa scoperta, succedutesi nel tempo, per meglio comprendere l'affascinante storia che ci trasmette, e la quotidianità di un popolo antichissimo, ma anche di quanto la tecnica archeologica subacquea sia evoluta in questi ultimi decenni, e di quante diverse discipline scientifiche si stiano ora avvalendo gli studiosi, per scoprire sempre più i segreti del nostro passato.

A portare l'Ing. Fioravanti sulle tracce del sito, è stato inizialmente il rinvenimento casuale di materiale ceramico, come i resti di piccole ciotole, orci, vasi più grandi, alcuni anche sani, semiaffioranti dalla sabbia e dal limo del fondo, e sparsi su una vasta area sommersa che si estendeva per circa un centinaio di metri, più o meno parallela alla riva, a profondità molto basse, dai due fino a un massimo di quattro o cinque metri. Purtroppo non fu il solo ad accorgersene; la zona infatti, per la grande facilità di accesso, e per molto tempo, è stata inevitabilmente visitata da subacquei in caccia di souvenir, che certamente qualche danno l'hanno fatto, ma non più di tanto. Queste ruberie si sono sempre limitate all'asporto di isolati reperti a vista, e a qualche tentativo di spostare a mano un po di sedimenti del fondale, per trovare qualche piccolo tesoro sepolto. Fortunatamente da quelle epoche lontanissime, su quest’area si sono andati pian piano sovrapponendo depositi di sabbia e limo, insomma quella che potremmo definire romanticamente la polvere del tempo, che assieme alle radici delle alghe che vi si svilupparono sopra, hanno progressivamente coperto sotto una coltre di alcune decine di centimetri di spessore, e anche ben oltre, varie stratificazioni di sedimenti, che hanno preservato intatti una grande quantità di reperti e di strutture lignee, che per poter essere raggiunti, occorre necessariamente intervenire con adeguate attrezzature di scavo, non alla portata di tutti. Quindi, a parte qualche asportazione superficiale, il sito è rimasto sostanzialmente inviolato.

Con grande intuito, l'Ing. Fioravanti si procurò delle fotografie aeree dall'Aerofototeca Nazionale, che furono molto utili per identificare nella sua globalità i confini di una zona ben definita di circa 800 metri quadri, che attraverso la trasparenza dell’acqua, data la ridotta profondità, presentava una morfologia diversa da quella naturale dei fondali del lago, con accanto un grande ed enigmatico accumulo di pietre di forma pressoché ellittica, delle dimensioni di circa 60 metri per 80 metri, molto ben visibile peraltro dalla superficie, e che i pescatori locali indicavano con la denominazione l'Aiola. L’intera area mostrava palesemente l’intervento della mano dell’uomo, avvenuto in epoche molto antiche, e la scoperta risultò subito molto interessante e meritevole di indagini più approfondite.

La Soprintendenza archeologica dell’epoca, resasi conto dell’importanza e della singolarità del sito, concesse i necessari permessi per l’avvio di un cantiere di scavo subacqueo all’appassionato scopritore, che riuscì ad organizzare squadre di archeologi e volontari, appoggiandosi, tra le diverse associazioni, anche al GAI Gruppi Archeologici d'Italia, e a diverse università straniere.

Iniziò così questa bella avventura archeologica, nella quale l’Ing. Fioravanti mise tutta la sua esperienza tecnica e professionale, inventando lui stesso strumenti e metodi di rilevamento topografico e di scavo. Ben presto il sito si rivelò generosissimo di reperti, e l’aspetto più entusiasmante fu che i primi interventi, oltre a numeroso materiale ceramico, consentirono di scoprire anche i resti di palificazioni lignee molto ben conservate e pur un buon numero di materiale metallico. I primi ricercatori dedussero quindi che si trattava di quanto rimaneva di un antichissimo villaggio, ipotizzando si potesse interpretare costruito su palafitte. Tra i manufatti via via recuperati, prevalentemente di uso domestico e di contenimento di derrate alimentari, alcuni presentano anche decorazioni. Questi disegni, pur se caratterizzati da forme geometriche elementari, ci riportano a una comunità che aveva già sviluppato un certo gusto artistico, indizio di una sua forma di cultura, anche negli oggetti più semplici per uso quotidiano, o legati ai lavori agricoli.

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Foto Umberto Natoli

Un operatore procede a mano alla delicata rimozione dei sedimenti attorno a un reperto.

Foto Umberto Natoli

Ogni ritrovamento, una volta liberato dai sedimenti, viene rigorosamente fotografato, prima di essere rimosso e recuperato.

Parte del materiale ritrovato nelle prime campagne di scavo è esposto dal maggio del 1991 nel Museo Territoriale del Lago di Bolsena, e può essere inquadrato, come altri reperti dello stesso periodo villanoviano, nella realtà dei popoli che precedettero la presenza etrusca nel territorio dell'Alto Lazio e dell'Etruria Meridionale.

Tuttavia, proprio l'esperienza di questi ultimi anni di scavo sistematico e continuo, condotti con metodologie e tecniche molto aggiornate, e sotto la guida dell'archeologa Barbara Barbaro, hanno notevolmente allargato l'interpretazione storica e archeologica del sito del Gran Carro, che ora può essere datato con certezza in un arco temporale molto più ampio di quello individuato nei primi studi, in cui fu costantemente abitato e vitale nelle sue attività, che va da circa il XV secolo a.C., ossia dal periodo del Bronzo Medio, fino a circa l'VIII secolo a.C., ossia fino alla prima età del ferro.

Prima di entrare più in dettaglio su cosa è stato scoperto, è opportuno riportare le deduzioni più aggiornate degli studiosi su cosa fosse stato questo luogo, abitato dai nostri progenitori con continuità per diversi secoli. Innanzitutto gli ultimi quattro anni di indagini hanno ulteriormente consentito di identificare i confini dell'area di interesse archeologico, che dagli iniziali 800 metri quadri circa, sembra interessare tutt'attorno una superficie ben più vasta, fino a circa 10.500 metri quadrati, che da sondaggi a campione, ha messo in luce resti di strutture lignee e reperti, che saranno sicuramente oggetto di future campagne di scavo.

I ritrovamenti ci indicano che si trattava di un grande agglomerato abitativo, costruito in legno sulla terra ferma, e forse su impalcato rialzato, in prossimità della riva del lago, allora più arretrato. Le strutture furono oggetto di vari rimaneggiamenti nel tempo, con ricostruzioni e ampliamenti intervenuti a seguito di incendi. Non solo. Sembra da alcuni indizi archeologici, ovviamente tutti da approfondire, che l'insediamento si estendesse con alcune abitazioni anche verso la collina che fiancheggia la riva del lago in prossimità della parte sommersa.

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Foto Massimo Lozzi

Un reperto villanoviano di squisita fattura, perfettamente conservato.

Il lavoro degli archeologi nell'area subacquea più indagata, di circa 800 metri quadri, e con una profondità media di m. 2,5, ha accertato finora l'esistenza di più di 500 pali, e che mediamente sono realizzati in una misura piuttosto omogenea di circa cm 25 x cm 28. Il loro posizionamento ha lasciato intendere che probabilmente vi fosse un collegamento tra i piani che sostenevano, dando vita a una rete, più o meno estesa di camminamenti e costruzioni limitrofe, che nel loro insieme costituivano la struttura di un abitato, e che per l'epoca può essere considerato di dimensioni sicuramente importanti. Ma sono i ritrovamenti dei vari reperti che hanno portato i ricercatori a comprendere le attività che venivano svolte da questa comunità. Sono venuti alla luce numerosissimi oggetti riconducibili alla vita quotidiana, come piccoli recipienti destinati alla cottura degli alimenti, con evidenti segni di annerimento alla base dovuti all'esposizione al fuoco, e vari piccoli contenitori, sicuramente utilizzati per le derrate alimentari. La grande quantità di queste suppellettili è indicativa di una popolazione presente in un buon numero di individui. Quindi questo villaggio, per dimensioni, per numero di abitanti, e per la lunghissima continuità temporale in cui è stato pienamente vissuto per centinaia di anni, aveva sicuramente mantenuto nel tempo un'importanza e una posizione strategica. Potrebbe essere stato un centro di interscambio commerciale per le popolazioni limitrofe, ma è ipotizzabile anche che vi risiedevano piccole attività produttive e di trasformazione. La quantità e il tipo dei reperti, e le dimensioni di parte di questi, riportano anche ad altre deduzioni interpretative. Infatti oltre a numeroso vasellame di piccole dimensioni, la presenza di grandi contenitori di terracotta lascia ipotizzare che questi non fossero solo destinati allo stoccaggio di derrate alimentari per uso familiare, ma anche utilizzati per un'attività agricola di raccolta e conservazione, e forse anche di lavorazione, ad esempio, di cereali, destinati poi a commerci e scambi. Non solo. Sono state trovate prove dell'esistenza di forni per la produzione diretta e di cottura di queste suppellettili in terracotta e comunque in materiale ceramico. Inoltre sono stati recuperati un buon numero di fuseruole, di rocchetti e di pesi da telaio, per la lavorazione della lana e della canapa, che potrebbero essere riconducibili ad una produzione di tessuti non solo limitata ad esigenze familiari, ma destinata ai commerci.

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Foto Umberto Natoli

La sorbona è uno strumento di grande aiuto per gli archeologi subacquei. Consiste in un tubo dove a poca distanza dalla bocca viene collegato lateralmente un altro tubo, di dimensioni minori, attraverso il quale viene pompata aria a pressione. Si genera così un forte effetto aspirante, che consente di risucchiare sabbia e sedimenti, che vengono poi rilasciati dall'altra estremità del tubo.

Gli interventi di questi ultimi anni coordinati dalla dottoressa Barbaro, hanno notevolmente accelerato l'interpretazione archeologica del sito, giungendo con un lavoro certosino di rimozione dei sedimenti a indagare fino a oltre un metro e mezzo al di sotto del fondale odierno del lago. I mezzi di scavo usati sono due sorbone ad aria e una ad acqua. Il lavoro è tuttavia particolarmente impegnativo perché il movimento che si produce con questi strumenti tende a intorbidire l'acqua, e il cedimento pressoché continuo del limo e della sabbia dalle pareti laterali dello scavo, mano a mano che si scende più in profondità nel substrato, rende poco visibile ciò che si va a scoprire. Per questo occorre talvolta utilizzare anche un mezzo di chiarificazione che è costituito da una pompa che spinge via l'acqua con i sedimenti e consente una visione accettabile del punto dove si sta operando.

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Foto Massimo Lozzi

Foto Massimo Lozzi

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Foto Umberto Natoli

Foto Umberto Natoli

Alcuni reperti appena emersi dal fondale, dopo la rimozione di uno strato di sabbia e sedimenti effettuata con l'uso della sorbona.

Ovviamente oltre agli interventi con le sorbone, gli archeologi devono effettuare molte altre operazioni, come la rilevazione topografica dei reperti, prima della rimozione, e la delicata raccolta degli stessi in appositi contenitori, che poi vengono portati a fine turno in superficie, nonché le varie misurazioni e rilevazioni di quelli più grandi che non vengono rimossi, come ad esempio nel caso dei resti di palificazioni, e a seguire l'eventuale posa di cartellini ove necessario, e la documentazione fotografica.

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Foto Umberto Natoli

I piccoli reperti e i frammenti ritrovati dagli archeologi, vengono raccolti in varie ceste posizionate in prossimità delle aree di scavo, che vengono poi recuperate a fine turno di lavoro.

Tanto impegno di tutta la squadra è stato però ripagato dal grande risultato scientifico della scoperta, che ci avvicina sempre più alla conoscenza di questo popolo antichissimo, della sua quotidianità e della sua laboriosità, ma anche delle avversità che ha dovuto affrontare. Lo scavo e l'esplorazione dei livelli più profondi del sedimento ha infatti consentito di accertare ben cinque stratificazioni di combustione succedutesi nei secoli, che indicano inequivocabilmente gli effetti distruttivi del fuoco. L'aspetto singolare è che ognuna di queste stratificazioni, pur se lontane tra loro nel tempo, presentano più o meno le stesse caratteristiche, ossia sono costituite da resti di palificazioni bruciate, e sovrapposte in maniera disordinata, evidente segno di crolli, e fra queste sono state ritrovate anche suppellettili in terracotta e in ceramica, intere o in frantumi, con molti segni di combustione, e altro materiale.

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Foto Umberto Natoli

Un'archeologa procede al lavoro di misurazione, numerazione, documentazione topografica e fotografica di una serie di pali lignei emergenti dai sedimenti del fondale.

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Foto Umberto Natoli

Al meticoloso lavoro degli archeologi, di numerazione e di documentazione topografica dei reperti, prima di procedere al recupero, viene talvolta affiancata anche l'attività di geologi o paleobotanici, che procedono alla rilevazione di dati ambientali, ad esempio con prelievi mirati di sedimenti del fondale.

Se ne è dedotto che una volta verificatosi l'incendio, i resti di tutto ciò che collassava, distrutto dal fuoco, come le costruzioni in legno e tutti gli oggetti che vi si trovavano, non veniva rimosso, forse anche perché in parte crollato sott'acqua e quindi irraggiungibile, e comunque ormai inservibile, e veniva sfruttato come base per la costruzione di un nuovo livello d'insediamento. Questa per gli archeologi è una grande opportunità di studio, perché per ognuno di questi strati, si trovano a intervenire in una piccola Pompei lacustre, dove tutto è rimasto sepolto e inviolato come al momento dell'incendio e del crollo. Sono state infatti ritrovate alcune parti di intrecci di frasche e di canne, riconducibili probabilmente alla funzione di copertura delle capanne, ed anche contenitori e oggetti di legno lavorati, oltre a frammenti di stuoie e di corde, perfettamente conservati dal limo, e all'interno di vasi e ciotole, addirittura i probabili resti di pasti appena consumati, o ancora da consumare, prima che il fuoco prendesse il sopravvento, come ossa di animali, tracce di cereali e spighe di grano. E' stato trovato anche un piccolo carapace di tartaruga, di non facile interpretazione, forse conservato come oggetto simbolico, o forse, utilizzato nell'alimentazione, come testimoniato in altri contesti coevi.

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