Archeologia – Le navi di Nemi (seconda parte)

Archeologia subaquea

Le navi di Nemi dell’imperatore Caligola

di Umberto Natoli
(seconda parte)


Un po’ di storia


A circa trenta chilometri a sud di Roma, nel cuore dei colli albani, il piccolo lago vulcanico di Nemi, esteso per soli 167 ettari conserva attorno alle sue rive le vestigia di culti antichissimi dedicati prima a divinità arcaiche e poi dalla prima epoca romana a Iside e a Diana trigenia. Ma ciò che già dal primo rinascimento, attorno al 1400, destò curiosità e desiderio di mettere mano a chissà quali favolosi tesori, fu la presenza della sagoma di un’antica e enorme imbarcazione sommersa che si intravedeva dalla superficie nelle giornate di acqua limpida, dai cinque ai dodici metri di profondità. A quel tempo le famiglie nobili, proprietarie del luogo, avevano già intuito che si trattava di un relitto risalente all’età romana, perché i pescatori trovavano spesso nelle reti oggetti antichi di varie dimensioni, tra cui alcuni molto belli. D'altronde Nemi ospitò per molti secoli dei santuari, ma anche una sontuosa residenza imperiale, attribuita inizialmente a Tiberio, e poi dagli studi più recenti a Caligola, ed è sempre stato considerato fin da epoche lontanissime un luogo sacro e misterico, circondato da una fitta vegetazione, ancora oggi largamente presente.
Ovviamente si pensò che la nave sommersa potesse essere legata in qualche modo ai numerosi ruderi che si trovavano a terra, tra i quali già a quel tempo furono trovate pregevoli statue ed altri oggetti molto raffinati che rivelavano l’esistenza di un sito sicuramente sontuoso. Ciò che meravigliò furono le grandi dimensioni dello scafo che si intuivano osservandolo dalla superficie, risultate poi negli studi e nei recuperi del novecento essere con precisione di metri 71,30 per 20, davvero inspiegabili per la ridotta estensione del lago.
Quindi già allora si sviluppò l’idea, confermata nei secoli successivi, che potesse essere una nave residenziale o di culto, un vero e proprio palazzo galleggiante, e di conseguenza si diffuse la convinzione che il fondo del lago potesse custodire nei resti di quello scafo molti manufatti di gran valore. All’epoca della seconda nave, distante circa 200 metri dalla prima, non se ne sapeva ancora nulla perché si trovava a quota più profonda dai dodici ai quindici metri, e non era visibile dalla superficie.
Si sarebbero dovuti aspettare altri quattrocento anni circa, fino alla fine del 1800 per scoprirne l’esistenza.


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I reperti in bronzo recuperati da un palombaro nel 1895 e ora custoditi presso il Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo a Roma, una bellissima testa di medusa, una porzione di balaustra adornata con teste bifronti, una piastra con raffigurati avambracci dal significato propiziatorio, frammenti di pavimentazione in opus sectile.


Nel 1446 l’idea di far luce su quel relitto misterioso e affascinante appassionò molto il Cardinale Prospero Colonna, proprietario di tutto il comprensorio, tanto che decise di commissionare al famoso architetto Giovan Battista Alberti un tentativo di recupero dello scafo. Questi fu di fatto il primo che con un sistema di argani e rampini tentò di arpionare le strutture, con il solo risultato di arrecare un gran danno e di portare in superfice solo qualche tubatura di piombo le cui scritte furono erroneamente interpretate come riferite prima all’imperatore Tiberio e poi sempre erroneamente a Traiano. Successivamente nel 1535 un nuovo tentativo da parte di un ingegnere militare bolognese Francesco De Marchi ebbe lo stesso risultato, ossia fu recuperato solo qualche frammento antico e si fece un gran danno. Stessa sorte nel 1827, quando il Cav. Annesio Fusconi fece costruire una grande chiatta munita di quattro grandi argani e collegata ad una rudimentale campana d’immersione. Nonostante l’impegno profuso l’impresa sostanzialmente fallì, fruttando solo diversi oggetti, che però vennero tutti trafugati o venduti e si fecero ancora ulteriori danni allo scafo. Si doveva poi arrivare al 1895 quando su incarico dei principi Orsini, nuovi proprietari del luogo, l’antiquario Eliseo Borghi assoldò un esperto palombaro che grazie alle tecniche d’immersione ormai più evolute, riuscì ad operare per la prima volta direttamente sul relitto e ad esplorare il fondale tutt’attorno, e fu in quell’occasione che questi ebbe modo di scoprire l’esistenza della seconda nave, fino a quel momento sconosciuta.


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I reperti in bronzo recuperati nel 1929 con l’abbassamento del lago di Nemi ed ora presso il Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo a Roma, tra cui quattro teste ferine che trattengono un grande anello e che adornavano i bagli lungo le fiancate delle navi e un bellissimo terminale del fusto di un timone con testa di leone, di cui rimane una foto quando era ancora montato sul suo legno originale andato distrutto nell’incendio del 1944.

All’epoca non esisteva proprio il concetto di archeologia subacquea intesa come studio scientifico di un relitto sul quale intervenire con criteri conservativi di recupero e di ricostruzione. Il palombaro iniziò così a cercare solo oggetti considerati interessanti e di valore e quindi ad asportarli, non memorizzandone la collocazione e anzi intervenendo traumaticamente su varie parti dello scafo per staccarli dalla loro collocazione. Fu lui a recuperare gli elementi sicuramente più belli di tutta la storia degli interventi sulle navi di Nemi, strappandoli letteralmente dai loro supporti, come i famosi bronzi, tra questi la meravigliosa testa di medusa, alcune protomi ferine, parti di una cassa decorata con due avambracci, una balaustra con figure bifronti, e inoltre staccò pezzi decorati di pavimentazione in opus sectile. Molto rimase in Italia, oggi esposto presso il Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo a Roma, ma tanto altro materiale di gran pregio andò disperso in varie vendite all’estero e in piccola parte anche distribuito presso alcuni musei, tra cui quelli Vaticani. Smantellò pure inutilmente e inspiegabilmente parecchie travi che portò in superficie, sempre seguendo le istruzioni dei committenti a cui interessava solo accumulare più materiale possibile a fini commerciali e molto poco scientifici. Ne rimane a triste testimonianza una foto scattata circa un anno dopo in cui si vede una catasta di legni abbandonati senza nessun criterio sulle rive del lago, destinati a marcire e a dissolversi nel giro di poco tempo.

Finalmente l’anno successivo, nel 1896, il governo prese coscienza dell’importanza archeologica delle navi e dello scempio che era stato perpetrato e cosa peggiore autorizzato, e affidò all’Ing. Vittorio Malfatti l’incarico di avviare un progetto scientifico per il recupero definitivo delle due navi, ed anche esplorativo del fondo del lago, bloccando di fatto ogni ulteriore e maldestro intervento distruttivo. Oltretutto in tutta la comunità scientifica internazionale cominciava proprio in quell’epoca a cambiare l’approccio al recupero dei beni archeologici, con criteri di studio più approfonditi rispetto al passato e con sistemi più moderni di conservazione dei reperti.


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Nei relitti sono state travate varie valvole idrauliche e cerniere destinate a sportelli o porte, ora conservate presso il Museo delle Navi di Nemi


Fu proprio l’Ing. Malfatti il primo a concepire e a proporre l’abbassamento parziale del livello del lago di circa 15 metri, pompando l’acqua nel percorso di un antico acquedotto del V sec. a.C. a cui era collegato, per farla defluire verso l’esterno. Si sarebbe potuto così mettere direttamente mano ai due scafi e poterli poi più agevolmente recuperare e spostare. Un’impresa per l’epoca ai limiti del possibile, considerata quasi visionaria, e dai costi molto elevati, che fece addirittura sorridere i politici a cui era stata proposta, e che per oltre vent’anni rimase infatti a livello di semplice proposta, non presa nemmeno in considerazione per la sua presunta inattuabilità, sia finanziaria, sia per gli aspetti tecnici che si sarebbero dovuti affrontare.

Il progetto grandioso non fu però dimenticato, e il desiderio collettivo di far luce su quell’antica e misteriosa realtà, di cui ogni tanto si tornava a parlare in vari ambienti accademici e politici, affascinò il nuovo capo del governo, Benito Mussolini, che nell’impresa vedeva una celebrazione e un omaggio alla grandiosità della civiltà romana, cui il fascismo largamente s’ispirava, e che intuì la potenziale eco positiva che l’avveniristica opera d’ingegneria avrebbe avuto in tutto il mondo, dando di conseguenza lustro all’immagine dell’Italia. Fu così che il 9 aprile 1927 in uno storico discorso presso la Società Romana di Storia Patria, il Duce annunciò l’avvio dei lavori, nominando il senatore e archeologo Corrado Ricci sovrintendente al progetto. L’avventura ebbe quindi inizio ed occorrevano due figure chiave cui affidare direttamente la fase operativa. Ricci, che era nel contempo impegnato su vari altri fronti politici e amministrativi, conferì l’incarico al più grande archeologo italiano di allora, Giuseppe Cultrera e per la parte tecnica all’Ing. Guido Ucelli amministratore della Società Riva di Milano, esperta in sistemi di pompaggio e movimentazione di acque. Il gruppo fu molto abile ad attrarre diversi sponsor privati che fornirono materiali sperimentali e varie e preziose consulenze tecniche gratuite, come la Società Elettricità e Gas di Roma e la Laziale di Elettricità che aiutarono ad affrontare i costi onerosissimi. D'altronde ne ebbero un notevole ritorno di immagine e notorietà.


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Vicino ai due scafi sono state trovate due ancore perfettamente conservate con le parti in legno e in piombo come la marra e la contromarra, e in ferro.
Nel dopoguerra sono state ricostruite per la parte lignea andata distrutta nell’incendio del 1944.


L’imponente cantiere allestito sulle rive iniziò con una solenne cerimonia il pompaggio dell’acqua il 20 ottobre 1928, e il 3 settembre 1929 alla quota tecnica rilevata di abbassamento del livello del lago di metri 11,28 emerse completamente la prima nave. Lo spettacolo fu maestoso per le grandi dimensioni dello scafo, metri 71,30 per 20 di larghezza. Era una struttura che subito confermò l’idea che più che una nave era un vero e proprio palazzo galleggiante, destinato a spostamenti limitatissimi. Nella parte superiore tutti i maldestri tentativi di recupero perpetrati nel tempo avevano fortemente alterato il ponte, ma lo scafo offrì agli studiosi una serie di straordinarie conoscenze sull’arte cantieristica dei romani con soluzioni costruttive molto sofisticate e fino a quel momento assolutamente insospettabili per l’epoca.

La parte esterna delle fiancate e l’intera opera viva presentava un rivestimento in lastre di piombo fissate con chiodi di rame ribattuti. Quello che però deluse molte aspettative fu che a bordo furono rinvenuti solo un gran numero di materiali tecnici e idraulici, pompe di sentina, cerniere, rivestimenti, tracce pregevoli di pavimentazione a mosaico e a marmi preziosi, tutto sicuramente molto interessante da un punto di vista scientifico, ma mancarono le opere d’arte di gran pregio, come ad esempio statue, marmi scolpiti, vasellame, decori, suppellettili preziose, mosaici interi, probabilmente già in gran parte portate via dai romani stessi dopo l’uccisione di Caligola, di cui si doveva cancellare la memoria anche affondando le navi a lui appartenute.
Vennero alla luce solo altre pregevoli protomi in bronzo. Insomma mancò lo scoop, la forte emozione, lo stupore del grande ritrovamento archeologico di inestimabile valore, anche perché tutti i grossolani prelievi dei secoli precedenti avevano progressivamente impoverito le originarie dotazioni delle navi, e di quel materiale recuperato e disperso probabilmente non conosceremo mai compiutamente la natura, la quantità e il pregio, ma per questo la scoperta non perse d’importanza e di fascino e iniziò ad attirare l’interesse di giornalisti e studiosi da tutto il mondo.
Insomma l’evento stava montando una vasta eco internazionale, ottenendo proprio l’effetto desiderato. Ma tutto questo clamore mediatico ebbe anche effetti negativi e fu uno dei motivi di forte attrito tra il rigoroso archeologo Cultrera e la classe dirigente e politica, perché le affollatissime visite guidate che furono organizzate praticamente di continuo sui lavori in corso, stavano rovinando seriamente i delicati legnami di pino, abete e quercia delle strutture, a seguito del continuo calpestio. Inoltre l’accelerazione impressa ai lavori andava in conflitto con le corrette procedure scientifiche di conservazione e di studio che si sarebbero dovute seguire e che invece necessitavano di tempi tecnici più lunghi.

Il regime però aveva fretta di completare l’opera sfruttando l’onda del successo e questa tendenza prevalse, tacitando le proteste di Giuseppe Cultrera, che venne addirittura rimosso dall’incarico.
L’impresa però si stava dimostrando piuttosto ardua, per il rapido deperimento dei legni emersi e molto più costosa del previsto, tanto che fu oggetto di accese discussioni e contrasti, e di forzate interruzioni, ma ormai l’Italia si era molto esposta a livello mondiale e non si potevano più interrompere i lavori che proseguirono senza ulteriori indugi, e nell’ottobre del 1932 anche la seconda nave era completamente emersa.

A quel punto si doveva realizzare una costruzione definitiva adeguata alla mole e all’importanza delle navi, temporaneamente protette da un hangar smontabile messo a disposizione dal Ministero dell’Aeronautica. A inizio del 1933 partì una nuova ricerca di sponsor sia per la realizzazione dell’ambizioso progetto museale, sia per la fornitura dei materiali costruttivi. Le adesioni furono molte e si scelse la proposta dell’architetto Vittorio Ballio Morpurgo in puro stile razionalista. Due enormi ambienti di metri 80 per 30 ciascuno, collegati da una galleria e distribuiti su una superficie di 6400 metri quadri, accolsero i due imponenti scafi con un risultato scenografico molto suggestivo.

Il 18 novembre 1935 la prima nave, che veniva spostata alla velocità di 16 metri al giorno, entrò nel suo invaso definitivo e si costruì quindi la facciata di chiusura del primo ambiente, poi il 20 gennaio 1936 fu completata anche la sistemazione della seconda nave. Accanto alle navi furono collocati tutti i reperti recuperati tra cui una barca di circa 8 metri ritrovata carica di decorazioni, evidentemente affondata per il peso eccessivo nel tentativo di depredare il prezioso carico, già in epoca antica, e due imponenti ancore, di cui una perfettamente identica al tipo moderno denominato ammiragliato, che tolse la presunta concezione del disegno agli inglesi, retrodatandola ai romani di circa 2000 anni.


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Dritto di prua conservato presso il Museo delle Navi di Nemi e foto del timone andato distrutto nell’incendio del 1944.


La tragica distruzione delle navi e la richiesta di risarcimento

Purtroppo i frutti di questa straordinaria impresa durarono ben poco. Solo pochi anni dopo l’apertura del museo la tragedia della seconda guerra mondiale colpì anche le navi di Nemi e la notte del 31 maggio 1944 le truppe tedesche in fuga incalzate dall’avanzata delle forze americane, prima di abbandonare il territorio del lago incendiarono per rappresaglia le navi, distruggendole completamente. Fu un danno che ferì non solo il patrimonio archeologico italiano, ma di tutto il mondo per la straordinaria eccezionalità della scoperta, praticamente un unicum, e per il grado di conservazione degli scafi che aprirono una nuova luce sulle tecniche di costruzione navale antica. Fortunatamente si salvarono i reperti più importanti perché con saggia previsione, a seguito dell’incalzare degli eventi bellici, il Soprintendente alle Antichità di Roma Salvatore Aurigemma li fece spostare a Roma nell’agosto del 1943, e tuttora si trovano esposti in un’apposita grande sala del Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo, dove inizialmente furono custoditi nei magazzini.

Nel dopoguerra vari interventi di restauro e ripristino hanno permesso di recuperare ciò che rimaneva del patrimonio del museo che è stato così riaperto, anche se l’imponente visione dei due grandi scafi originali è solo un ricordo.

Il tragico evento è una ferita ancora aperta nella popolazione di Nemi, tanto che la giunta comunale a luglio 2020 su proposta del sindaco Alberto Bertucci ha votato una delibera per chiedere al governo tedesco una forma di risarcimento, dichiarando in proposito che l’incendio fu «un consapevole gesto di sfregio. Per questo chiediamo il risarcimento. Abbiamo ritrovato relazioni, ampie documentazioni, testimonianze: i nazisti allontanarono tutti i residenti e il custode. Decisero di dare alle fiamme quei tesori. Non c’è dubbio. Noi non chiediamo semplicemente i danni. Vorremmo che, con un gesto significativo di spirito europeo, le autorità tedesche collaborassero con noi per ricostruire ciò che emerse delle due navi ricorrendo alle nuove tecnologie di riproduzione. Grazie a un libro dell’Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato del tempo, abbiamo una grande mole di dati, misure, immagini per procedere a un’opera di riproduzione, in concorso col governo tedesco e magari con la mediazione del nostro Ministero per i Beni e le attività Culturali». Insomma il comune di Nemi auspica l’organizzazione di un costruttivo tavolo di concertazione tra il comune stesso, il Ministero e un ente del governo tedesco per avviare un lavoro congiunto all’insegna della cultura e della ritrovata amicizia tra i popoli.

 

Alcuni esempi di documenti datati dal 1928 al 1930 custoditi in due faldoni presso l’Istituto di Archeologia e Storia dell’Arte.
Si tratta di fotografie, stralci di giornali che riportano le notizie sui ritrovamenti, opinioni di studiosi esteri sull’interpretazione di alcuni reperti come le ancore, disegni tecnici, carteggi sull’esecuzione delle opere, e un taccuino con riportate descrizioni e bellissimi disegni di un archeologo eseguiti durante lo svolgimento dei lavori.



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